domenica 22 settembre 2013

Il sassarese che cantava per Evita

Ascoltando papa Francesco ricordare lo speciale legame che unisce la Sardegna all'Argentina, mi è tornato alla mente un personaggio che ho conosciuto nel 1999 e che ora non c'è più. Si chiamava Antonio Pirisi ed era ospite di Casa Serena. Lo intervistai dopo aver letto la sua storia sulla rivista dell'istituto di via Pasubio curata dall'infaticabile Adele Loriga: Pirisi non solo sosteneva di aver conosciuto Juan Peron, ma anche che il presidente gli avesse rivelato le sue origini sarde. Vi ripropongo il pezzo che pubblicai sul Quotidiano di Sassari: sull'argomento si è scritto tanto in questi anni - il punto più alto a mio parere è il bel libro di Giovanni Maria Bellu "L'uomo che volle essere Peron" - ma la testimonianza di Pirisi rimane godibile e preziosa per lo sguardo che getta sulla vita degli emigrati in Argentina. Quella evocata oggi da papa Bergoglio sul colle di Bonaria.

Antonio Pirisi a Casa Serena

“Conosci Aggius?”. “Sì, Presidente!”. Questa è la storia di due sardi, un muratore e un personaggio storico, che si sono riconosciuti a vista.
Tutto è iniziato a Brindisi alla fine del 1948. Il giovane Antonio Pirisi aveva appena terminato di partecipare alla ricostruzione dell’aeroporto cittadino distrutto durante la guerra. L’Italia si stava ancora leccando le ferite causate dalla fine del secondo conflitto mondiale, e proprio in quell’anno, grazie alla guida di De Gasperi e ancor di più al Piano Marshall, aveva iniziato la lenta rinascita. Ma il paese era ancora posseduto dalla crisi economica, e ad Antonio, come a tanti altri, non restò che emigrare.
“Feci la domanda per poter entrare in varie nazioni del pianeta: Canada, Argentina, Australia, Francia, Germania. L’Argentina accolse la mia richiesta nel 1949”. Antonio fu chiamato a Napoli per sottoporsi ai controlli e alle analisi dei medici della sua nuova patria. “Superai l’esame, e fu vera gioia perché ero stato prescelto in una nuova terra. Provai anche tristezza e un po’ di amarezza, perché lasciavo la mia patria e la mia famiglia. Con la convinzione, però, che un giorno sarei tornato in Sardegna”.

Juan Peron (da Wikipedia)

Insieme ad altri compagni iniziò la nuova avventura imbarcandosi su una nave statunitense in stile liberty, che ormai veniva utilizzata solo per il trasporto degli emigrati. Il suo nome, “Santa Fè”, era l’emblema della sua nuova missione nei mari. La prima terra che Antonio vide dopo le settimane passate in oceano fu l’isola di Las Palmas. “Era l’8 settembre, e si festeggiava Maria Vergine. Per noi giovani sembrava aprirsi un nuovo orizzonte”.
Il 12 ottobre, giunse infine a Buenos Aires. Nella grande città, dopo tre giorni passati a riposarsi, fu assunto da una impresa edile che aveva in appalto la costruzione di una villa di un farmacista franco-inglese, nel quartiere “De Olivos”. Questa era una delle zone privilegiate della capitale, che pian piano era diventata un coacervo di razze ed etnie diverse. La villa del farmacista si trovava proprio di fronte alla Quinta residenziale, l’abitazione del Presidente della Nazione.

Tra mattoni e cemento Antonio, che aveva un passato di cantante, ingannava il tempo intonando a piena voce le canzoni italiane, per combattere la nostalgia.
Gli inquilini della casa presidenziale in quel periodo erano i coniugi Peron, Juan ed Evita. I due amavano fare delle passeggiate in bicicletta, passando spesso di fronte al cantiere.
“Un giorno mi sentirono cantare. Arrivati di fronte alla villa si fermarono, e mi chiamarono. Il Presidente mi chiese chi fossi e da dove venissi. Gli risposi di essere sardo, italiano. Peron allora domandò: “Conosci il paese che si chiama Aggius?”. “Conosco Aggius, dissi con emozione”. Il colonnello gli rivelò allora di avere avuto un nonno di quel paese, che di cognome faceva Perrone. “Per me era come ritrovare una persona amica con le origini comuni. Il Presidente mi parlò dell’Italia e del suo essere orgoglioso di avere radici sarde, che gli trasmettevano antichi valori, forza e tenacia”. Da quel giorno, Juan ed Evita si fermarono spesso di fronte al cantiere, chiedendo ad Antonio di cantare le canzoni italiane. “La signora Peron aveva i capelli biondi, era elegante nel portamento e molto affabile. Il suo ricordo mi affascina ancora oggi e quando sento le canzoni scritte per lei, i film, i libri che raccontano la sua storia, mi sembra quasi impossibile che io, piccolo sardo, possa aver allietato con la mia voce le sue passeggiate”.

Papa Francesco a Bonaria


domenica 8 settembre 2013

Fuga dall'Asinara




Nel giorno in cui La Nuova Sardegna descrive la fuga dei cinghiali dall'Asinara verso l'Isola Piana, ecco il racconto di un tentativo di evasione dalla Cayenna sarda avvenuto giusto settant'anni fa, dopo l'8 settembre. Protagonista un soldato che immagino affascinante e spregiudicato, Giovanni Sepich partigiano slavo recluso nella colonia penale. 
Secondo il sostituto procuratore del Re che ha rappresentato l’accusa nel processo, Sepich fu la mente della rivolta che rischiò di trasformare l’isoletta in un serbatoio di facinorosi pronti a sbarcare nella Sardegna settentrionale. 

Il 26 settembre diciotto reclusi per reati comuni, tutti armati di coltello, aggrediscono gli agenti di custodia, si impossessano delle loro chiavi e li rinchiudono nelle celle. Alcuni ribelli picchiano selvaggiamente le guardie e minacciano gli altri detenuti: seguiteci e abbandoniamo tutti insieme la prigione. 

Secondo il racconto fatto successivamente, nelle ultime settimane il clima era diventato insostenibile: i reclusi lamentavano un trattamento inumano, mangiavano poco e male e sostenevano di venire ripetutamente percossi dagli agenti di custodia. Neanche gli animali vivono in quelle condizioni, dissero. Si era poi sparsa la voce che nel marasma seguito all’armistizio, tutti i prigionieri sarebbero stati liberati per partecipare alla nuova fase della guerra. Sepich fremeva più degli altri: ripeteva di essere in possesso di gravi segreti militari da comunicare al maresciallo Tito. Nessuno lo aveva voluto ascoltare. Le presunte ingiustizie e le prepotenze subite fecero da detonatore.


I rivoltosi non fanno bene i conti e lasciano libera qualche guardia di troppo. Ci vuole poco perché da tutta l’isola arrivino uomini armati. I secondini iniziano a suonare il moschetto: Sepich e gli altri si arrendono in fretta, la speranza è più debole di qualche fucilata verso il cielo. I corpi sfiancati dalla fame non vogliono ingaggiare una battaglia senza prospettive.  I detenuti lasciano le armi e tornano in cella. 

Il processo per i fatti dell’Asinara si celebra a Sassari pochi mesi dopo: lo slavo e gli altri capi della rivolta vengono condannati per evasione aggravata e lesioni personali aggravate continuate. Sepich si becca anche la pena per aver tentato di impossessarsi di una carabina degli agenti di custodia. In tutto sono altri 7 anni e 7 mesi e una multa di 4mila lire. Quando potrà liberare i suoi segreti sarà troppo tardi.