domenica 11 agosto 2013

La Faradda di Mangiafuoco

Dalla rivista del Comune "Sassari"


Piccoli aneddoti sui Candelieri dalla Nuova Sardegna, per augurare buon ferragosto e darci appuntamento a settembre.

Premi/1. Negli anni Settanta la Faradda era anche una piccola gara. Al termine della Discesa venivano assegnati tre premi da 150, 100 e 50mila lire. I giurati dovevano tenere conto della ricchezza degli addobbi dei ceri, della danza del candeliere, dell'abbigliamento dei portatori e della puntualità. 

Record. A proposito di puntualità, nel 1970 ci si lamentò che la Discesa era durata quattro ore, invece delle solite tre. Nel 2012 il primo candeliere è partito alle 18 e l'ultimo è arrivato in piazza Santa Maria dopo la mezzanotte. Fate voi il conto.

Premi/2. Nel 1988, durante la cerimonia per il Candeliere d'Oro, il sindaco Marco Fumi consegnò a Mario Usai una targa come portatore con maggiore anzianità. La scelta provocò le vivaci rimostranze di un altro portatore, che nel cortile di Palazzo Ducale quasi aggredì il premiato sostenendo di essere lui il portatore più anziano. L'uomo fu allontanato dal servizio d'ordine. A Sassari tutti lo conoscevano per il suo soprannome: Mangiafuoco.

Premi/3. Nel 1995 Angelino Manai, storico gremiante dei Massai, festeggiò la sua settantacinquesima Faradda. Di lui nel 1970, la Nuova Sardegna aveva scritto: "E' un po' il simbolo della festa dei Candelieri: simbolo dell'attaccamento alla tradizione, simbolo dello spirito sassarese e simbolo anche di democrazia, una democrazia ante litteram che da qualche secolo consente all'obriere dei Massai di trattare alla pari col primo cittadino, in quel tradizionale incontro a Palazzo di città".


Il Sindaco Guarino e Angelino Manai (da una bacheca di Palazzo Civico)


Morta e dormiente. Nella sceneggiatura della Faradda, alla Madonna è dedicato un ruolo "orizzontale": morta fino alla proclamazione del dogma dell'Assunzione (1950), e successivamente dormiente. Nonostante il cambio di status, negli anni Settanta venne riesumato il rito antichissimo dell'Apostolato: dodici confratelli dei Misteri, dopo una sosta in porta Sant'Antonio in attesa del primo candeliere, andavano in silenzio verso la chiesa e si disponevano intorno alla Madonna a ricordo dei dodici apostoli intorno a Maria al momento del trapasso.

Guerriglia. Nel 1994 il sindaco Giacomo Spissu giustificò così la scelta di dare delle regole alla sfilata dei minicandelieri, che all'epoca anticipavano disordinatamente la discesa dei ceri grandi: "Sbucavano come tupamaros dai vicoli, dovevamo regolamentare!".

Capra e cane. Nel 1983 lo storico tamburino Salvatore Cappai svelò il segreto del suo suono inimitabile: "La pelle del tamburo deve essere conciata a dovere ed essere esclusivamente di capra". E dopo aver descritto la delicata procedura di preparazione, aggiunse un aneddoto sul perché la pelle di cane non è invece adatta: "Una volta la utilizzai ma mentre mi recavo a San Camillo per partecipare a una festa richiamai l'attenzione di due cani: avevo appoggiato lo strumento sotto un fico, gli animali si avvicinarono e, alzata la gamba, giù un'innaffiata coi fiocchi. Pensai a una coincidenza, ma alla seconda tappa i cani erano già tre…".


domenica 4 agosto 2013

Otto piccoli Ulisse sardi

Il Candeliere d'Oro


Il 13 agosto Sassari celebrerà il cinquantesimo anniversario del Candeliere d'Oro, manifestazione inventata per festeggiare gli emigrati che tornano in città per la Faradda (Segnalo la bella iniziativa del Comune per coinvolgere chi è rimasto all'estero). A loro, e ai numerosi lettori del blog sparsi nel mondo, è dedicato questo racconto. 

Tra il 1943 e il 1945 molti sassaresi sono in apprensione per la sorte dei parenti oltre Tirreno. L’isolamento aumenta l’angoscia e l’unico filo che lega la Sardegna all’Italia scorre invisibile nell’aria. Radio Roma e Radio Vaticana portano le voci di chi sopravvive nella capitale, città aperta. Ogni giorno le radio snocciolano lunghi elenchi di nomi e cognomi con le località di provenienza, messaggio nella bottiglia dall’identico contenuto: noi siamo vivi, tranquilli. Il servizio di corrispondenza copre solo alcune province del Sud liberato, non è possibile scrivere a chi risiede nell’Italia occupata dai nazisti. Per prendere la nave ci vuole uno speciale lasciapassare.

Se le campagne sono attraversate dai disertori continentali immobilizzati nell’isola, ce ne sono altrettanti sardi sospesi in Continente. Molti soldati riusciranno a tornare a Sassari solo a guerra abbondantemente finita, sporchi, irriconoscibili, incapaci di reinserirsi nelle dinamiche di famiglie che idealmente li avevano già seppelliti. A determinare i loro destini sono le scelte compiute subito dopo l’armistizio. Per tutti è l’inizio di un’imprevedibile sequenza di eventi. L’importante è dribblare i tedeschi che non hanno digerito il cambio di alleanze e ricorrono facilmente ai plotoni d’esecuzione. L’unica regola è, quindi, improvvisare. 

Improvvisano tre ragazzi del Battaglione Avieri (Antonio Masia, Antonio Frau e Giuseppe Cocco) che il 16 settembre decidono di tornare in Sardegna. Si trovano a Frosinone e hanno un piano semplice semplice, l’unico possibile: rientrare in Sardegna attraverso la Corsica, guado percorribile per chi ha a disposizione solo le proprie braccia. I tre rimangono per alcuni giorni alla macchia, aiutati dalla popolazione locale. Poi vanno due giorni a Roma, dove convincono altri due conterranei a tentare l’avventura, Francesco Serra e Giuseppe Murgia. Ora sono in cinque. 

Raggiungono Civitavecchia occupata dai nazisti e qui il gioco si fa più rischioso. Il gruppo è inebriato dal profumo del mare: oltre l’orizzonte c’è la terra promessa. Una motivazione sufficiente per superare le ultime pause e imbarcare nell’impresa disperata altre tre disgraziati: Andrea Manca, Francesco Abis e Leonardo Sotgiu. Tra mille peripezie e attacchi d’ansia, gli otto piccoli Ulisse sardi risalgono la costa fino alla spiaggia di San Vincenzo, tra Piombino e Livorno. Rubano una barchetta e iniziano la traversata verso l’isola francese. A forza di remate.

Ci vogliono sedici lunghe ore per tagliare il Tirreno. Quando i nostri, consumati dalla stanchezza, intravedono la costa hanno un sussulto. La piccola barca sta per incrociare un convoglio tedesco. Una nave di scorta inizia a sparare contro di loro, sembra finita. Ma, come si dice, arrivano i nostri. Nel cielo sfreccia una formazione americana che attacca le navi tedesche. I sardi ne approfittano per scansare la cattura e andare verso Bastia, con tutto lo scafo sforacchiato. Sbarcano nel porto che le braccia sono blocchi di marmo senza più sensibilità. Il tempo di alzare la testa ed ecco la delusione più grande: il porto è in mano ai nazisti, non c’è possibilità di fuga, è stato tutto inutile. Imprigionati, vengono costretti a lavorare nelle banchine. Tanta fatica per finire schiavi dei nemici. Passano alcune settimane e la città viene bombardata. In mezzo a quell’inferno di fumo e sangue, i sardi colgono l’occasione al volo per dileguarsi e iniziare un lento avvicinamento verso Bonifacio. Si uniscono ad altri italiani e alla fine riescono ad attraversare le Bocche. La stampa locale li tratta da eroi. Quattromila anni fa le loro gesta sarebbero state cantate da Omero, oggi sarebbe il soggetto di un videogioco.