venerdì 8 maggio 2020

La rincorsa dei Carlini tra "maledizioni" e successi







Terza puntata della ricerca dedicata agli antenati lontani. QUI potrete trovare quella dedicata a Salvatore Masala, mentre QUI la prima dedicata all'invasione dei genovesi e alla famiglia Ottonello. Ora ci spostiamo sul ramo, sempre genovese, dei Carlini. 

Le immagini che ho scelto per questo articolo sono eccezionali e riguardano i funerali di Alfonso Carlini, mio bisnonno, morto nel 1934. Alfonso era nato a Masone da Andrea Carlini che aveva cercato la fortuna a Sassari subito dopo il colera del 1855 trascinandosi la famiglia e dando vita a una dinastia protagonista dell'economia cittadina.

Abbiamo raccontato come la calata dei genovesi abbia destabilizzato la popolazione sassarese. Vediamo quale fu il percorso dei Carlini. Tutto inizia nella Valle Stura, la retrovia di Genova, uno dei centri nevralgici del commercio mediterraneo. È qui, come nel retrobottega di un artigiano che si affaccia sulla via principale di una città, che l’industria ligure trasforma le materie prime raccolte in giro per i mari. Masone è la capitale dei ferrai, un borgo produttivo composto da un nucleo centrale e tante cascine sparse nelle campagne. Ha conosciuto lo sviluppo dalla fine del Quattrocento, e nei secoli il suo tessuto demografico è un groviglio inestricabile di linee ereditarie appartenenti a poche famiglie: tra queste gli Ottonello e i Carlini.

Degli Ottonello ho già parlato. A leggere il libro di Pietro Pastorino si intuisce che i Carlini sono di sangue caldo: presenti a Masone dal Quattrocento, sono famosi per essere sempre pronti a menare le mani, a Sassari li chiameremmo affarradori. In molti abitavano nelle già citate cascine e furono protagonisti anche di congiure contro il Marchese del tempo. Nonostante questo anche loro, come gli Ottonello, vantano diverse vocazioni religiose: 3 preti e 11 suore. Ma il paradiso se lo conquistano con la costruzione della Cappella del Carmine tutt’oggi curata dalla famiglia.

Ma perché a un certo punto Ottonello e Carlini prendono la strada della Sardegna? Le cose a Masone iniziano a cambiare nella seconda metà Settecento. L’economia fondata sul ferro risente della concorrenza anglosassone e pian piano le famose cascine si svuotano per mancanza di lavoro. La valle conosce un’emorragia storica dei suoi figli: la gran parte prende la via dell’Argentina e degli Stati Uniti. Un piccolo gruppo individua la Sardegna come terra promessa.

Non è una scelta comoda: fino al 1814 è possibile raggiungere l’isola da Genova solo con i bastimenti a vela: tartante, brigantini, feluche, polacche; da quell’anno si può utilizzare la Real Goletta, a patto però di portare con sé coperte, materassi e cibo per la traversata, e tutto con una grande incognita: quanto durerà viaggio? Si riuscirà a scansare i pirati o i terribili mori? Viaggia solo chi è costretto per lavoro. Ad esempio, il 13 giugno 1821 il canonico Giovanni Spano si imbarca a Porto Torres ma tocca terra in continente il 20 agosto: passa l’estate in balia delle tempeste e delle onde. Scenari da Odissea omerica.

Ad Andrea Carlini va meglio perché dal 1835 erano iniziate le corse i battelli a vapore, prima una volta ogni quindici giorni, poi una a settimana. Il primo approdo del Gulnara fu salutato da una folla di curiosi giunta da tutto il nord ovest della Sardegna. Il parroco di Sennori organizzò una comitiva dal paese per assistere a questa meraviglia. Il primo sbuffo di modernità nel Golfo dell’Asinara, 150 anni prima delle torri del petrolchimico. 


Alfonso Carlini, la moglie Filomena Manzoni e i figli. La bambina seduta a destra è mia nonna Teresa.
Per conoscere quale spettacolo si trovavano di fronte i genovesi appena scesi dal battello basta leggere i resoconti dei grandi viaggiatori dell’epoca. La Sardegna è una terra arretrata e povera. Ci vuole coraggio, ma può bastare il complesso di superiorità, per piazzare le tende dalle nostre parti. Sassari otteneva generalmente il consenso per i giardini, le vallate verdi e i corsi d’acqua. Ma quando si trattava di penetrare le mura, soprattutto nei bassi di San Donato e Sant’Apollinare, il quadro sanitario e ambientale si faceva umiliante e degradante. Tanto che negli anni Trenta dell’Ottocento quando fu costruito il nuovo Palazzo di Città, i sassaresi ben consapevoli della loro condizione trovarono un immediato significato alla quattro “S” disegnate nella ringhiera del balcone: Sassari Sarà Sempre Sporca. E per quanto i genovesi siano stati visti come predoni, è innegabile che il loro arrivo fu una delle cause della trasformazione della città.

Come detto, con il commercio i liguri misero mano anche all’edilizia. Andrea Carlini, come tutti, acquisto e ristrutturò. Abbiamo già parlato della casa nelle Appendici, ma il negoziante – come si legge negli atti del Comune – acquista casa anche in Carra Pizzinna, l’attuale via Cesare Battisti, e ristruttura una palazzina nel vicolo chiuso di via San Carlo, tra Sant’Apollinare e il Corso. Enrico Costa cita la tenuta di Santa Barbara, di fronte all'attuale Bricoman.

Andrea ha diversi figli.

- Il primo, Gio Batta (che si chiama così come il nonno Ottonello), lavora come bancario e poi calca le orme del padre; si sposa con Luigia Zanchi e ha dieci figli. Il primogenito è Andrea, rampante avvocato, ma meritano di essere citati anche Erminio e Luigi che porteranno avanti lo spirito imprenditoriale;

- poi ci sono Teresa (prima) ed Eugenia (poi) che si sposeranno con Gavino Solinas: dalla seconda unione nascerà Vito, mio bisnonno per parte materna;

- il quinto figlio, e secondo maschio, si chiama Alfonso e si sposa con Filomena Manzoni.(che aveva già un figlio, Angelo Manai, che diventerà anche lui un noto imprenditore). Avranno otto figli. La più piccola è Teresa che si sposerà con Salvatore Masala diventando mia nonna paterna.


La maledizione dei Carlini

Sulla discendenza di Andrea Carlini sembra abbattersi un sortilegio che tocca gli omonimi del fondatore. Andrea Carlini, l’avvocato figlio di Gio Batta, muore improvvisamente. Ne dà notizia il 12 aprile 1899 La Nuova Sardegna, senza nascondere la commozione:

Ieri sera verso le ore 6 cessava improvvisamente di vivere fra le braccia della madre l’avvocato Andrea Carlini, dell’età di 28 anni. La dolorosa notizia, sparsasi con rapidità fulminea destò penosissima impressione nella nostra città, dove il Carlini era conosciutissimo. Una lunga schiera di amici, che a Sassari contava molti e affezionati, si recò subito a visitarne la salma, non potendo credere a tanta sventura. Il Carlini, laureatosi in legge or sono due anni aveva iniziato a esercitare l’avvocatura con lode. Era amato da quanti lo conoscevano per il suo buon cuore e per il suo carattere aperto e simpatico. Le nostre sentite condoglianze alla famiglia. I funerali avranno luogo domani alle 9.

A testimonianza di questo grande dolore rimane la grande cappella gotica del cimitero dove troneggia il busto del giovane Andrea. 

Fotografato di spalle mentre osservo la cappella edificata in memoria di Andrea Carlini junior
Due anni dopo nasce un nuovo Andrea Carlini, figlio di Cristoforo Felicito. Morirà solo quattro anni dopo.

Per motivi di spazio tralascio di ricostruire i successi imprenditoriali del ramo "Giobatta" e mi concentro sul ramo "Alfonso", dal nome del mio bisnonno, una figura che ha segnato pesantemente la storia della mia famiglia: per la personalità forte e accentratrice e perché ha creato un’azienda nel comparto oleario che dopo cento anni porta ancora il suo nome (oggi si occupa di prodotti petroliferi).

Le prime cronache a nostra disposizione lo presentano, però, come vittima di un furto. È il 13 giugno del 1892

Tredici barili spariscono. Il proprietario signor Alfonso Carlini viveva sicuro del fatto suo, poiché i barili d’olio, chiusi com’erano nel magazzino posto nel già vicolo chiuso G in corso Vittorio Emanuele, non potevano far gola a nessuno. Ecco il giudizio umano come spesso erra. I barili, otto di primissima qualità e cinque di qualità un po’ inferiore, furono, malgrado tutte le precauzioni, portati via mediante apertura con grimaldello, nella data indeterminata dall’uno al sette. Si fanno le solite indagini, speriamo che non abbiano… il solito esito.

Lo sviluppo di questo ramo Carlini è attraversato da un’altra maledizione: quella di morire lontano da casa. Così capita ad Alfonso Carlini: la sua scomparsa improvvisa nel 1934 porterà il quotidiano L’Isola a dedicargli ben due articoli che danno l’idea del personaggio:

19 maggio. Ci giunge notizia da Genova che nel pomeriggio di giovedì improvvisamente si è colà spento, lontano dai suoi affetti più cari, il cav. Alfonso Carlini, nota e stimata figura del commercio sassarese. La ferale nuova, immediatamente propagatasi per la città, ha dolorosamente colpito quanti ebbero a conoscere e apprezzare le alti doti d’animo e di cuore dell’estinto, che durante la sua vita interamente dedicata agli affetti della famiglia e all’assiduo onesto lavoro, si era acquistato unanime stima e simpatia. Ai figli, e in special modo al nostro camerata Francesco Carlini, ai familiari tutti colpiti da tanta sciagura, le più vive nostre condoglianze. 

I funerali di Alfonso Carlini



23 maggio. Domenica mattina sono state tributate imponenti onoranze funebri alla salma del compianto cav. Alfonso Carlini, improvvisamente spentosi in Genova nel pomeriggio di giovedì scorso. Il feretro, accompagnato dai familiari e dagli intimi, giunse alla stazione, ove era atteso da molti amici, col diretto di Terranova e fu subito trasportato nella chiesa di Santa Caterina ove fu celebrata “corpore presente” una messa di suffragio e impartita la benedizione alla salma. Dalla chiesa si formò il lungo corteo funebre, che era aperto da tutti gli istituti pii cittadini e dal clero. La bara era deposta, coperta dai fiori della famiglia, su di un carro funebre di prima classe, del quale reggevano i cordoni il Procuratore del Re commendatore Emanuele Pili, il comm. Ezechiele Pallavicini, il Direttore del Credito Italiano dott. Rovigatti e il cav. Uff. Scipione Costa- Seguivano i figli dell’estinto, i generi, i nipoti, i parenti e uno stuolo numerosissimo di amici e conoscenti, fra cui molte autorità e notabilità cittadine, i quali tutti vollero recare l’ultimo tributo di affetto all’estinto che, padre amoroso, cittadino esemplare e benefico, godeva le unanimi simpatie e la stima generale. Ai figli, e in special modo al camerata Francesco, ai familiari tutti così duramente colpiti, rinnoviamo in quest’ora dolorosa le nostre più vive condoglianze.

Anche in questo caso, l’unico modo per perpetuarne la memoria è costruirgli un mausoleo degno di quel necrologio: un edificio massiccio e squadrato, il cui ingresso è controllato da un uomo muscoloso e nudo che tiene una pesante mazza rivolta verso il basso. Sopra il tetto e tutt’intorno altre statue e bassorilievi di donne che piangono con il capo coperto. Forza, volontà e dolore.


Dodici anni dopo, il 22 gennaio del 1946, la presunta maledizione toccherà un figlio di Alfonso, Francesco, deceduto a Milano dopo “breve violenta malattia”. A reggere l’azienda rimane Achille. C’è anche un altro figlio maschio di Alfonso che si terrà una posizione più defilata: si chiama anche lui Andrea ma, non si sa se per tenere lontana la malasorte, in famiglia lo chiameranno tutti Uccio (e che forse anche per questo è vissuto serenamente fino a tarda età).


CONCLUSIONI
Compiere ricerche nel passato familiare significa sprofondare lentamente in un pozzo senza fondo. Il numero di informazioni utili è potenzialmente infinito, così come lo sono le fonti: quelle documentali tradizionali, che pure non sono poche, e quelle orali: tante quanti sono i discendenti viventi di una persona. La progenie di Salvatore Masala e Andrea Carlini è incalcolabile.

Ho fatto allora una scelta: concentrarmi su quelle essenziali informazioni documentali (articoli di giornale, libri e materiale d’archivio) capaci di integrare la memoria tramandata di generazione in generazione. Leggendo queste pagine avrete individuato piccole imprecisioni o pensato che “manca un pezzo”. È inevitabile. Non sono uno storico e non ho tutti gli strumenti della ricerca scientifica.

Volevo semplicemente dare un quadro generale e verosimile di due personaggi chiave nel percorso che ha portato alla mia nascita: un uomo di cultura sassarese al cubo e una dinastia di mercanti e manager.



Le FONTI PRINCIPALI sono ovviamente il Sassari di Enrico Costa (nella versione Edizioni Gallizzi del 1992), il libro di Angelo Lobina Le gobbule del Notajo Salvatore Masala (sempre Gallizzi, 1996), Radici antiche e Radici Nuove, cognomi delle famiglie di Masone di padre Pietro Pastorino (Parodi Azienda Grafica & Affini, Genova, 1995).

Poi ci sono gli articoli di Alessandro Ponzeletti, e tanti libri che mi hanno aiutato a ricostruire il contesto e a trovare piccole informazioni specifiche. Ecco i principali.

Iniziamo da Sandro Ruiu:

- Tra città e campagna, La Camera del Lavoro di Sassari e della provincia dalla fondazione all’avvento del fascismo 1900/1922, Cgil, Sassari, 1990;

- Dizionario storco degli imprenditori di Sardegna (insieme a Cecilia Dau Novelli) Volume I e II, Aipsa Edizioni, 2012 e 2015.

Poi c’è Paolo Cau:

- Le guide di Sassari, Palazzo Ducale. Comune di Sassari, 2004

- Palazzo Ducale, politica burocrazia e lavoro al Comune di Sassari in età liberale, 1848-1914. Comune di Sassari, 2018.

Le due opere a cura di Antonio Capitta dedicate a commercio e industria:

- Ex fabrica, Capitani d’industria a Sassari Mediando, 2014

- Negozi & Negozi, Mediando, 2016

Sempre per le edizioni Mediando:

- Enrico Costa, lo scrittore e la sua città, di Manlio Brigaglia e Simonetta Castia, 2009

- Impossibile concorrenza!, di Simonetta Castia e Stefania Bagella, 2004.

Grazie a Giovanni Carlini per alcune foto e all'Archivio Storico Comunale e alla Biblioteca Comunale per la cortesia e la disponibilità di sempre.

martedì 28 aprile 2020

Quando i genovesi erano il "cancro" di Sassari




Dopo aver raccontato la storia del notaio/poeta Salvatore Masala, proseguo il viaggio tra i miei antenati lontani.


Risalendo nei secoli lungo le radici familiari si corre il rischio di fare scoperte sorprendenti. Tra i miei antenati non ho trovato nessun figlio illegittimo di nobile o nessun famoso bandito (e forse è un peccato). Ma, da amante dei Candelieri, ho sussultato quando ho scoperto di discendere da uno degli autori di un clamoroso boicottaggio alla Faradda.

È il 1848 e c'è un Gremio, quello dei Mercanti, che è più forte degli altri nel quadro dell'asfittica economia cittadina. Questa categoria, formata prevalentemente da rampanti negozianti genovesi, rinuncia a partecipare alla sfilata dando uno schiaffo alle altre corporazioni di arti e mestieri. È un colpo così forte che da quel momento fino all’anno del colera (1855) la processione conoscerà un momento di crisi.

L'episodio è raccontato da Enrico Costa e rappresenta l'apice clamoroso di uno scontro tra questo nuovo ceto e la vecchia classe dirigente cittadina. Si tratta di un passaggio ricco di significati nella nostra storia e fra poco capiremo perché. Pochi anni fa l'Archivio storico comunale ha ritrovato il documento originale di questo "gran rifiuto". Tra i firmatari c'è Giobatta Ottonello, che rappresenta il primo immigrato genovese che posso annoverare tra i miei antenati. Per me è importante perché sarà il suocero di Andrea Carlini, primo tassello di una dinastia il cui DNA oggi è presente in tantissime, e anche note, famiglie sassaresi. Giobatta era nato a Masone (vicino a Genova) nel 1794 e di professione faceva il chiodaio, un mestiere molto diffuso da quelle parti. Si sposò due volte: la prima con Maddalena Macciò, da cui ebbe tre figli, la seconda con Angela Maria Patrone da cui nascerà Annetta, moglie di Andrea Carlini. Grazie a un libretto* stampato a Genova nel 1995, ho scoperto che l'antenato più lontano di Giobatta (e quindi anche mio) era un certo Giovanni Pastorino, nato nel 1592 e morto nel 1682, sempre a Masone.

La famiglia Ottonello ha un curriculum interessante: nei secoli ha fornito alla Chiesa 16 preti e 35 suore. Un paio di Ottonello sono passati alla storia per le loro imprese: Antonio che tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento ha combattuto in mezza Europa e Pietro (1837-1900, forse figlio del nostro Giobatta ma non ho trovato la doppia conferma) che meriterà un po’ di medaglie nel Risorgimento fino alla Legion d’Onore. Ma prima di andare oltre nella storia delle famiglie e Ottonello e Carlini, dobbiamo capire come si è arrivati alla disputa del 1848. Perché c'è di mezzo una svolta decisiva nella storia di Sassari.

A questo punto, se non ci fossero le limitazioni da Covid-19, vi proporrei una bella passeggiata per ammirare gli ultimi esempi di archeologia industriale rimasti intorno al diaframma ferroviario che separa la città dalla zona dei vecchi orti: le Concerie Costa in piazza Santa Maria, lo stabilimento Ardisson in via San Paolo e la ciminiera Carlini in viale Sicilia. Relitti dell’invasione che cambiò Sassari per sempre, quella dei mercanti genovesi.

Sassari e il capoluogo della Liguria si erano già incontrati nel Duecento, quando la nostra città dipendeva dalla repubblica marinara. Ma non fu mai vero amore. E quando nella seconda metà del Settecento, con l’ingresso della Sardegna sotto l’ombrello dei Savoia, ci fu l’arrivo in massa di una nuova generazione di intraprendenti commercianti liguri, la reazione fu di evidente ostilità. In poco tempo questi migranti dal nord monopolizzarono i traffici di olio e pellame, alimentando l’esportazione verso i porti continentali e francesi e animando il commercio con forme e dinamiche mai viste fino ad allora.

Leggete cosa scriveva il Siotto


Le popolazioni si lamentavano contro lo sgoverno dei Piemontesi; ma Genova era il cancro dell’isola, divenuta colonia di quelli astuti mercanti. In mano loro era il traffico di Sassari, Cagliari e Porto Torres; e, non ché contentarsene, guerra intimavasi alle nostrali industrie. Questo dico in parte nello intendimento di dar colpa agli isolani, i quali, anziché seguire l’esempio, si rammaricavano standosi colle braccia conserte, nella secolare inerzia, a vedere strarricchire gli strani.

Il giornale “L’indipendenza” lanciò una campagna sottolineando come la Sardegna fosse ricca di risorse naturali che non sapeva sfruttare, mentre i genovesi con le loro misure protezioniste imponevano i prezzi alle merci sarde. Quanto assonanze con certe polemiche contemporanee! 



Enrico Costa ci racconta che nel 1848 i negozianti più noti di Sassari erano una cinquantina, per la maggior parte genovesi. In città i cognomi liguri erano tutti “pesanti”: Ardisson, Bozzo, Brusco, Calvi, Canepa, Canessa, Costa, Murtula, Ottonello, Tavolara, Zolezzi e diversi altri.

Ma - in una città piccola tutto ritorna - se c’è un simbolo della reazione sarda alla nuova classe mercantile ligure fu la stessa costruzione del Palazzo Ducale, voluto dal Duca dell’Asinara come prova di forza della vecchia classe aristocratica locale. Ma era impossibile mostrare muscoli che non erano più quelli di una volta: alla fine del Settecento furono necessari 40 anni per costruire l’edificio, tanto che il Duca non riuscì ad abitarvi e i discendenti lo godettero per poco, distratti dalla bella vita parigina. Così nella seconda metà dell’Ottocento iniziò a ospitare uffici pubblici e poi il Municipio.

Non solo i genovesi non rimasero particolarmente impressionati dal Palazzo ma presero a comprare e ristrutturare altri edifici della vecchia nobiltà sassarese e a costruirne di nuovi nelle Appendici, la “Sassari Due” in costruzione a Sud-Est oltre il vecchio castello, lungo la strada reale. Dalla parte opposta rispetto a dove stavano costruendo le fabbriche che appestavano l’aria nella parte bassa del centro storico: soprattutto nelle giornate di Maestrale tutto quel trattare pelli e sansa tra Le Conce e Tana di Lu Mazzone diffondeva miasmi irrespirabili nella città vecchia.

Dietro il "gran rifiuto" di Giobatta Ottonello e degli altri genovesi ci fu tutto questo. Ma non era che l'antipasto, perché il Colera rappresentò il passaggio decisivo per imprimere a questa storia una direzione precisa. Apparentemente rallentò l'ascesa economica: in quel fatidico 1855 tra i cinquemila deceduti ci furono anche tanti genovesi. Diversi clan furono spazzati via ma il “cancro” ligure non poteva essere sconfitto: era già pronta una nuova generazione di invasori. E nel mezzo del rimescolamento di proprietà, beni e soldi che seguì a quell’ondata di morte prese il via - anche in questo caso insieme alla miracolosa guarigione di Salvatore Masala di cui ho già scritto - la mia storia familiare. È adesso che compare quell’Andrea Carlini che vediamo spuntare nella memoria archivistica cittadina nella primavera del 1856, quando decide di acquistare dal Comune un lotto delle Appendici, proprio a fianco alla casa del suocero Giobatta Ottonello. Tutto lascia pensare che sia arrivato a Sassari dopo l’epidemia ma non abbiamo certezze, anche perché tra i morti ci fu una Caterina Carlini, di 57 anni. Sicuramente arrivò da solo e affrontò una vita da pendolare: i figli nacquero tutti a Masone.

Ma sarà nella prossima puntata (QUI) che seguiremo le poche briciole lasciate da questo nuovo trafficante genovese, e faremo un salto oltremare per capire meglio chi erano e da dove venivano i Carlini e gli Ottonello.



*Radici antiche e Radici Nuove, cognomi delle famiglie di Masone di padre Pietro Pastorino (Parodi Azienda Grafica & Affini, Genova, 1995).

venerdì 24 aprile 2020

Il notaio/poeta che si beffò del Colera e generò solo figli maschi



Due anni fa, compiendo indagini sui miei antenati lontani, ho scoperto quanto il colera del 1855 sia stato uno spartiacque nella parabola delle famiglie da cui provengo. L'epidemia uccise un quarto dei sassaresi e ne infettò un altro quarto. Ma ci sono due storie in particolare che mi hanno appassionato, quella del notaio e poeta Salvatore Masala e quella del mercante genovese Andrea Carlini, entrambi accomunati dall'avere avuto una discendenza incalcolabile. Visto che anche la nostra generazione si trova nel mezzo di un'epidemia (non paragonabile a quel colera) ho deciso di raccontare a puntate la storia di questi personaggi. 

PRIMA PUNTATA

Gli avevano dato l'estrema unzione perché il contagio sembrava non lasciargli scampo. Quando inaspettatamente tornò alla vita, prese il taccuino e col suo solito stile mise nero su bianco cosa pensava del colera che nel 1855 aveva devastato la sua Sassari: un malanno così terribile non poteva che essere nato dal "troddio di uno zappatore". L'inizio della nuova gobbula del notaio-poeta fece ridere i concittadini. Sono passati 165 anni e il sorriso appare anche sulla mia bocca ma per un altro motivo: se fosse morto per il colera, io non sarei mai nato.


L'autore della poesia dialettale è Salvatore Masala, l'antenato più lontano che ho rintracciato con il mio cognome. Tre anni dopo la sua miracolosa guarigione, nel 1858, gli nacque il figlio che ha dato il via la linea di successione che arriva fino a me. Masala fu un protagonista minore ma ricordato della Sassari dell'epoca. Quando morì, il 14 febbraio del 1900 a 77 anni, La Nuova Sardegna gli dedicò questa nota funebre: 

Nel pomeriggio di ieri ebbero luogo i funerali del notaio Salvatore Masala, assai popolare per il suo carattere schietto e amantissimo della famiglia. Per volontà del defunto nessuna corona fu deposta sul feretro. Intervennero molti notari, avvocati e altri professionisti. Nella chiesa di San Paolo, pronunziò affettuose parole di rimpianto il prof. Carmine Soro Delitala. Condoglianze alla famiglia.


E qui è già nascosta un'informazione che ci fa mettere un piede nella leggenda. Il passaggio chiave dell’articolo è "amantissimo della famiglia", ed è legata a un probabile record stabilito da Salvatore Masala: non tanto legato al numero dei figli (14 o 19 a seconda delle fonti) ma soprattutto perché furono tutti maschi. Un generatore di cromosomi Y, un moltiplicatore di Masala. All'epoca il ruolo di notaio non era accompagnato dal prestigio sociale (e dai reddito) di oggi. Lo storico e scrittore Enrico Costa ci racconta che si tratta di una figura non facile da collocare nella scala sociale. Per accedere a questa professione non era necessario essere laureati ma aver fatto pratica presso qualche altro notaio. A leggere la letteratura dell'epoca sembra venire fuori il quadro di un grigio funzionario confinato nel ceto medio. Quello che rese celebre Salvatore Masala furono le sue gobbule, le tradizionali poesie in vernacolo sassarese. Grazie a queste si meritò una citazione nella monumentale opera di Enrico Costa


Molte persone ebbero in Sassari fama come compositori di Gobbule e fra gli altri il notaio Masala, rinomatissimo

Se conosciamo la sua opera è soprattutto grazie ad Angelo Lobina, un suo discendente che riuscì a scovare le trascrizioni che un figlio di Salvatore, Enrico, fece di diverse poesie del padre.

Rinomatissimo, dunque, scrisse Enrico Costa. E quanto state per leggere ne è una prova, visto che si tratta di parole scritte cinquantaquattro anni dopo la sua morte. Trovai questo articolo per caso, sfogliando le annate del Corriere dell’Isola. Lo firma Nicola Pedde che evidentemente aveva conosciuto Salvatore Masala da ragazzo. E che dopo tanti anni sentiva il bisogno di farlo conoscere ai più giovani. Grazie a questo ricordo, tra le altre cose scopriamo che era un uomo integro, religioso e pignolo sul lavoro. Ma che era conosciuto da tutti per un tratto particolare della personalità. Eccolo: 





Era un originalissimo organizzatore di caratteristiche mascherate;

Autentico sassarese, nato e battezzato nella parrocchia più popolare della città, parlava con semplicità e sempre in dialetto e di questo si serviva nei brindisi leggiadri, nelle gobbule satiriche che lo resero simpaticamente noto e ammirato dentro e fuori delle mura della città;

Autore di componimenti satirici in vernacolo i quali, coi fuochi a ripetizione delle arguzie più saporite, col satireggiare spietato e talvolta impertinente temperato però sempre da una cortese signorile bonarietà sarcastica, mettevano in garbata canzonatura il lato comico delle cose anche se meritassero serio e ponderato rispetto e scoprivano e rivelavano il ridicolo, il grottesco della persona anche se per qualche loro benemerenza godessero simpatia e reputazione.


Per rendere meglio l'idea Pedde racconta questo aneddoto:

Ricordo di avere assistito, giovinetto, a una festa di nozze. L’anfitrione, mescendo i vini più esilaranti, aveva cercato di destare un po’ di buon umore; invano, più che un banchetto di nozze appariva un banchetto funebre. Occorreva, bisognava salvare la situazione e il salvatore, conscio della sua missione, non tardò a comparire col cappello un po’ fuori di carreggiata, col solito bastone a manico di corno, stretto, come un termometro, sotto l’ascella, colla sua grande giacca che non era certo da visita, dalla cui tasca penzolava il lembo di un enorme fazzoletto colorato, di quelli che usano i fiutatori di tabacco. Fu come quando uno, premendo un bottoncino, dà luce a una stanza prima avvolta nel buio. Un coro di gioia, una esplosione di evviva proruppe da tutti i cuori diventati, come per magia, ilari ed espansivi. Il miracolo era stato compiuto e come sempre dal volto sempre ilare e dalla vena inesauribilmente poetica del buon salvatore.

Il notaio che "accendeva le feste" dev'essere stato davvero un bel personaggio. Uno dei discendenti ha stilato un albero genealogico di alcune delle famiglie che possono vantarsi di averlo come antenato. Ma sono di più quelle che sfuggono a questa conta. E non parliamo della seconda generazione. Faccio solo un esempio: il figlio da cui discendo (il mio bisnonno Antonino - nella foto in alto con moglie e figli - nato nel 1858 e morto nel 1935) ebbe 8 figli ma in famiglia si racconta che ce ne furono diversi fuori dal matrimonio. A testimonianza che il destino di Salvatore Masala era quello di sopravvivere al colera per innestare un DNA robusto nell'albero di Sassari. 


La prossima storia

Una calda domenica mattina del settembre 2018 io e mia figlia siamo andati al cimitero monumentale di Sassari alla ricerca della tomba di Salvatore Masala. Una sfida impossibile: dopo quasi 120 anni consideravo difficile che non fossero intervenuti eventi come successioni o espropri. Ci siamo divisi le file e dopo aver passato più di un’ora tra croci, lapidi scrostate, statue e fiori appassiti ci siamo arresi perché il sole diventava sempre più accecante. Prima di andare via ho voluto mostrare alla mia sudata assistente la cappella della famiglia Carlini, da cui discendo per parte paterna e materna.

Arrivando al mausoleo, e cercando un po’ d’ombra, mi sono avvicinato a una parete di loculi. Come aveva fatto negli ultimi novanta minuti, l’occhio ha iniziato a scansionare le lapidi, soffermandosi su una di quelle più sobrie, scolorite e illeggibili. Ma nonostante un secolo e più di esposizione agli agenti atmosferici il risultato era inequivocabile: avevo trovato la tomba di Salvatore Masala e della moglie Domenica Agnesa. Lì, a pochi metri dalla Cappella Carlini. Lì per raccontare, già al primo impatto, due storie profondamente diverse. 
La prima l'avete appena letta, la seconda inizierò a raccontarla dalla prossima puntata.


venerdì 23 dicembre 2016

Natale col Boss (Sassari 1905)


Molto prima dei 41bis a Bancali, molto prima di Gomorra e molto prima di Lillo e Greg. Siamo a pochi giorni dal Natale del 1905 e i sassaresi, con una punta di malcelato razzismo, si indignano per un caso di cronaca - l'ennesimo, si legge - che vede protagonista un detenuto meridionale. Scrive il quotidiano L'Epoca: "Gli inquilini delle nostre carceri ordinariamente sardi e di solito tranquilli, messi a contatto con i rappresentanti più autentici della camorra, della teppa, della mafia continentale, divennero anch'essi turbolenti, violenti pure, arrivando fino al vero e proprio ammutinamento".

Cos'ha provocato questi toni durissimi, molto simili a quelli usati attualmente nei confronti dei carcerati islamici? Semplicemente le gesta di Carmine Fiamma, un tipaccio proveniente dal carcere di Noto* confinato a San Sebastiano per aver assassinato un carabiniere e famoso per la personalità violenta, insofferente e provocatoria. Ancora prima di sbarcare nella stazione di Sassari aveva sfidato i suoi accompagnatori: "In treno riuscirò a sfilarmi i ferri dai polsi". Il giudice lo aveva condannato a passare trent'anni in Sardegna. E Carmine aveva preso la sua decisione: ogni giorno avrebbe fatto scontare una pena equivalente al piccolo universo triste compreso tra via Roma e via Cavour. Un incubo per il direttore, le guardie e il personale dell'infermeria.

La sua personalissima strategia della goccia cinese iniziò con una vertenza contro i panettieri locali. Godiamocela nella prosa originale del quotidiano: "Chiese di parlare il direttore e quando fu in presenza di lui trasse di sotto al giubbone da condannato una pagnotta e gettandola con burbanza sul tavolo del direttore disse: io non mangio di questo pane da cani, questo pane mangiatelo voi". Il direttore gli fece una stanca ramanzina e lo rispedì in cella. Ma lui, poco prima di varcarne la soglia, gelò il secondino: "Voi chi siete! Un giorno o l'altro vi strapperò il cuore e me lo mangerò d'un boccone".

Detto, fatto (o quasi). Una mattina alle 11 Carmine affronta la consueta ora d'ora in uno dei cortili di San Sebastiano. Dopo neanche mezz'ora si accascia a terra, contorcendosi per un malore e chiedendo di essere ricondotto in cella. Soccorso da due guardie viene sollevato di peso e riportato nel suo raggio. Giunti di fronte alla stanza si consuma la tragedia: Fiamma estrae da sotto il giubbone una baionetta da carabiniere e colpisce con ferocia e violenza i due secondini. Li ferisce entrambi al petto, sotto il capezzolo sinistro, a un passo dal cuore. Uno dei due cade urlando in un lago di sangue: la ferita è profonda. L'altro - meno grave - reagisce, gli salta addosso, chiama i rinforzi. Carmine è ridotto all'impotenza. L'agente ferito viene portato in infermeria, le sue condizioni sono preoccupanti. Per qualche giorno la notizia non supera il muraglione di via Roma. Poi qualcuno spiffera l'accaduto ai giornalisti.

A questo punto il direttore di San Sebastiano aveva quattro problemi: un agente in fin di vita, una baionetta spuntata dal niente, un'opinione pubblica che chiede spiegazioni e un delinquente d'oltremare che fa lo strafottente: "Quelle guardie mi hanno fatto dei torti e pure un rapporto falso. Sono una vittima, signor giudice".

Ma è su quella baionetta che si concentrarono le polemiche. Al suo ingresso a San Sebastiano Fiamma era stato perquisito con cura e vestito con nuovi abiti da capo a fondo. Periodicamente la sua cella veniva passata al setaccio. Il mistero era, e rimarrà, senza spiegazione. Al direttore che aveva sottovalutato la tenacia del mariuolo non restò che allargare le braccia e incassare gli schiaffi della carta stampata. Ha da passa' 'a nuttata.

*secondo il quotidiano L'Epoca era un siciliano, ma facendo ricerche su internet sono arrivato alla conclusione che potrebbe essere anche un noto brigante abruzzese, non proprio un meridionale.

Sempre su internet ho raccolto altre informazioni su Carmine Fiamma. Ecco un articolo tratto da http://docplayer.it/14891585-La-ferrovia-sulmona-isernia-compie-117-anni.html

La fuga del recluso Fiamma 
Riportiamo integralmente un articolo a commento della foto in ultima pagina su «Tribuna Illustrata» di Domenica 8 febbraio Rivista trovata su uno noto sito web di aste on line da un amico Marco Ferrante, sempre attento anche alla nostra tematica. Un fatto avvenuto sulla nostra Transiberiana d Italia ovvero la linea Sulmona-Isernia sotto la Galleria di «Canzano». Difficile stabilire quale fosse esattamente la kilometrica in quanto in quel tratto sono presenti ben quattro gallerie di cui una artificiale. L'audace fuga del recluso Carmine Fiamma dalle unghie dei carabinieri mentre si trovava in un treno in corsa, è la scena che rappresenta la nostra ultima pagina a colori. Questo celebre malandrino che era stato condannato a trent anni di reclusione, viaggiava insieme con altri tre detenuti, sotto la scorta del vicebrigadiere Zattoni e d'altri due carabinieri, sul treno mattinale da Sulmona a Isernia. Quando il convoglio si trovò sotto la galleria di Canzano il Fiamma, con abile manovra, approfittando dell oscurità, poté liberarsi dalle manette, rimanendo per tal modo libero anche della catena che lo avvinceva ai suoi tre compagni. Non appena il treno era uscito dalla galleria, il Fiamma balzo fuori, come un gatto, dal finestrino che era stato aperto da un carabiniere, e si precipitò giù dal treno. Siccome c'è un Dio anche per gli audaci, il Fiamma, in quel ruzzolone che a un galantuomo avrebbe costato la vita, se la cavò con qualche leggere scorticatura al volto e alle ginocchia, e poté darsela a gambe giù per la spalla della strada ferrata, per internarsi poi negli sterpigli e nei boschi. I carabinieri, riavutisi dall atto fulmineo ed inatteso del Fiamma, apersero il finestrino ed unjo di essi, il carabiniere D Amato, saltò a terra per inseguire il fuggiasco. Il D'Amato, correndo, cadde più volte, ferendosi gravemente, cosiché il Fiamma potè guadagnare il bosco rendendo vana ogni altra ricerca pel momento. Per la cronaca aggiungiamo che il fiamma dopo aver vagato per un giorno e una notte pei boschi, fu segnalato ai carabinieri di Peltorano, che lo arrestarono. Era estenuato di fatica e morto di fame.

mercoledì 5 agosto 2015

Candelieri con la faccia sporca e altre polemiche ferragostane


Non è vera Faradda senza qualche polemica lanciata ad arte per surriscaldare il clima ferragostano. Negli ultimi vent'anni alla vigilia dei Candelieri abbiamo litigato sui candelieri medi, sui nuovi ceri, sugli inchini alle autorità, sugli orari di ingresso a Santa Maria e abbiamo colto l'occasione per tenere alte altre disfide estranee alla Festha manna: ZTL, rese di conti tra partiti, vertenze sindacali e così via.
Per non pensare che sia un impazzimento collettivo del nuovo millennio, ecco un campionario di diatribe di mezz'agosto a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento.  Manca la storia più clamorosa ma merita un discorso a parte e lo affronteremo un'altra volta.

Condotte asciutte. La prima polemica è decisamente familiare. Alla vigilia della Faradda del 1893, oltre un secolo prima di Abbanoa, i sassaresi maledicono il servizio idrico. A pochi anni dall'inaugurazione dell'acquedotto di Bunnari, i residenti di piazza Castello si vedono chiudere l'acqua mezz'ora prima dell'orario annunciato: un disservizio che lasciano all'asciutto diverse famiglie per tutta la notte. "Col caldo che fa - commenta il cronista - non è certo una bella cosa, e raccomandiamo, a chi di ragione, perché l'orario sia osservato più scrupolosamente".

Basta sbadigli. Due anni dopo un editorialista della Nuova Sardegna - si firma ACTOS - saluta con soddisfazione la composizione di un comitato che vuole rilanciare la Faradda dopo la sciatteria degli ultimi dieci anni in cui "I soli candelieri, mezzo sfasciati, mezzo indecenti, continuarono a sfilare in piazza fra una calca sbadigliante". In vista del rilancio, ACTOS lancia un appello ai protagonisti della festa: "Chiudo con un desiderio: che i Gremi tutti concorrano a rendere più attraente la caratteristica processione, con abbigliare più riccamente e più decentemente i candelieri, ai quali bisogna lavar la faccia!".

Un guado dentro la città. Tra fine Ottocento e la prima decade del Novecento il ferragosto sassarese attira tanti turisti cagliaritani che arrivano in massa grazie al giovane collegamento ferroviario. A richiamare i cugini del Capo di sotto non è solo la Faradda - che si conclude al tramonto e dura decisamente meno di quella attuale - ma soprattutto le manifestazioni di contorno: il Festival nei giardini pubblici o in piazza d'Italia, le gare sportive, le corse ippiche e gli spettacoli a teatro. Alberghi e caffè vengono presi d'assalto, le donne tirano fuori le mise migliori e dappertutto è un brulicare di folla festante. Nel 1898 si ripete però un inconveniente che era stato segnalato già l'anno prima: tra l'emiciclo Garibaldi e i giardini pubblici si forma un rigagnolo d'acqua che costringe le donne imbellettate ad alzare le gonne per andare oltre: "Non è cortese né degno di città che aspira ad attrarre visitatori che di sole gentilezze dovrebbero serbare ricordo", scrive il giornale. Il comitato che organizza il Festival scarica la colpa su Palazzo Ducale: "Spetta al municipio che, senza interrompere questo corso d'acqua, potrebbe facilmente deviarlo per l'occasione. Tra la polvere della piazza e l'acqua che l'attraversa sarebbe facile trovare una soluzione: sopprimere l'una con l'altra. Ma non si domanda tanto". Il Comune messo alle strette interviene su entrambi i problemi: manda personale a rimuovere la polvere e durante la festa interrompe la distribuzione dell'acqua di irrigazione che finisce nella cunetta.

Il brigadiere accaldato. Le cronache ferragostane sono ricche di risse, denunce per schiamazzi e arresti per ubriachezza: un campionario che si ripete puntuale ogni anno. Nel 1903 nel libro nero della Festha manna finisce anche un tutore dell'ordine. La Nuova Sardegna racconta che, nel corso del Festival e a margine di un intervento contro un gruppo di studenti che si divertiva a urlare e fischiare, un brigadiere dei Carabinieri inveì contro la folla dando del farabutto a tutti quanti: "Davvero, che se la benemerita dà questi esempi non sappiamo come si potrà mantenere l'ordine pubblico - scrive il cronista - invitiamo pertanto e gli agenti della forza pubblica e il pubblico a serbare quel contegno che si addice a persone civili conscie dei propri diritti e dei propri doveri".



Non svegliate il tarlo. Nel 1906 La Nuova Sardegna pubblica una riflessione dal tono decisamente crepuscolare. Fa un certo effetto leggere questo passaggio, anche alla luce della recente inaugurazione del nuovo cero dei Sarti: "E, come noi l'abbiamo veduta, i nostri padri e i nostri uomini videro la bella sfilata dei Candelieri. Da molti anni essi dunque conservano la forma prima che diede a essi l'umana pietà e tra le fibre di quel legno il tarlo deve aver compiuto una terribile opera di distruzione. Che nessuno oggi tenti di scrostare un po' la vernice di fuori: potrebbe essere il principio dello sfacelo. E se un giorno, come vuole il destino, quelle colonne si disfarranno completamente? Ci saranno ancora degli uomini che vorranno riconsacrarle al Dio onnipotente, padrone della vita e della morte, perché un'altra volta sorrida all'omaggio dei suoi doveri figli e un'altra volta li benedica?".

A braccia incrociate. Sempre nel 1906 Sassari viene scossa da un imponente sciopero. Sessanta operai dello stabilimento Clemente e cinque del laboratorio Manca si astengono dal lavoro per protesta. Lo stato di agitazione dei lavoratori del legno - riuniti in una Lega - arriva la culmine di una lunga vertenza con i proprietari delle falegnamerie sulla riduzione dell'orario di lavoro a dieci ore e l'approvazione di un nuovo regolamento sui diritti e doveri degli operai. La Faradda si svolge in un clima pesante: "Lo stabilimento Clemente è sorvegliato dalla forza pubblica, ma non crediamo ci sia pericolo alcuno di disordini", rassicura La Nuova Sardegna.

Una baraccopoli nel salotto. Alcune polemiche si ripetono anche a distanza di cento anni. Nel 1907 piazza d'Italia è ancora una spianata polverosa e nei giorni della festa ospita strutture mobili e il padiglione del Circo Zavatta. Ma al cronista alcune cose non piacciono proprio: "Si vanno innalzando diversi chioschi che meglio potrebbero chiamarsi baracconi: è una vera indecenza. Né possiamo capire come se ne sia permessa l'erezione senza preventivo esame dei disegni. La piazza elegantissima per se stessa e più elegante ancora per le indovinate decorazioni, viene deturpata dagli indecenti baracconi da fiera di villaggio. E' questa l'impressione generale e noi per il buon nome di Sassari protestiamo".

La discarica nella vallata. Chi conosce il Fosso della Noce avrà difficoltà a ritrovarsi in questa notizia. Nel 1910, alla vigilia della Faradda, il comitato "Pro Montibus Sassarese" guidato dall'onorevole Garavetti si riunisce per affrontare alcune questioni importanti da sottoporre al Comune. Una riguarda la vallata tra viale Umberto e il nuovo quartiere: "Nel Colle dei Cappuccini hanno già cominciato a sorgere villini ed è ormai assicurato un grande sviluppo edilizio in detta regione; impiantando il boschetto nel Fossu di la nozzi, la vallata sarebbe trasformata in passeggiata pubblica e inoltre vi sarebbero maggiori vie di comunicazione tra i villini e il rimanente della città, si toglierebbe poi il grave inconveniente derivante dall'essere quella vallata coltivata a orto: le concimazioni vengono specialmente fatte colla spazzatura della città, questi rifiuti, deposti in mucchi, vengono lasciati esposti alla vista dei cittadini certe volte per mesi interi".

Monelli e sassi volanti. L'anno successivo la polemica ferragostana tocca i famigerati monelli sassaresi. La cronaca di Sassari ospita una sequenza di notiziole con un bersaglio preciso: i pizzini pizzoni. Scopriamo così che in città ci sono portoni dove dormono gruppi di 7-8 "furfantelli avvinazzati" e che i monelli sono considerati dei molestatori professionali: il 14 agosto finiscono tra le loro grinfie un garzone calzolaio di piazza Tola, che reagisce con un colpo di trincetto, e un mendicante di viale Umberto che si difende facendo vibrare il suo bastone. Probabilmente c'è un monello dietro questo fatterello raccontato con prosa futurista: "Con l'odierna invadente mania degli aeroplani e dei dirigibili non c'è proprio da stupirsi che oggi vogliano volare anche i… sassi. Uno di essi, fra i più arditi, cadde ieri sul capo della bambina Sanna Giuseppina di 12 anni che attraversava verso il tramonto in via Frigaglia con alcune sue amiche. Dalle quali la poveretta venne subito accompagnata a casa con la testa insanguinata".


Ferrovie amare. "Il fatto è così enorme che qualunque commento è superfluo". Così, nel 1917, chiosa il cronista dopo aver raccontano le peripezie di una signora vittima di uno zelante ferroviere: la donna compra un biglietto andata e ritorno in seconda classe sulla tratta Sassari-Caniga. Al momento di rientrare in città, il controllore le fa notare che in seconda classe non ci sono più posti. La signora, di fronte alla prospettiva di tornare a piedi dalla borgata, segnala che in prima classe invece ci sono due giovani e due ragazzi "comodamente sdraiati". Il personale del treno è risoluto: o sale nel bagagliaio o rimane a terra. La poveretta prende il suo biglietto di seconda classe e decide di marciare gambe in spalla verso Sassari "con questo caldo asfissiante". Il giorno a Sassari si registrano 38,8 gradi all'ombra.

(Per chi non lo avesse letto ho raccontato altri aneddoti sui Candelieri nel post La Faradda di Mangiafuoco).

domenica 28 dicembre 2014

Nozze lampo con truffa

(Prima di proseguire vi consiglio di leggere QUI la prima puntata di questa storia. Per chi ha fretta ecco un breve riassunto: nel 1943, poco prima di Natale, una vecchia rivela a un soldato umbro che la donna sassarese che sta per sposare è ancora formalmente unita in matrimonio a un altro uomo. Il milite la prende male e annulla le nozze. Prima di andare via dimentica di portare con sé i certificati fatti arrivare dal Continente).


La megera - che ha il cervello veloce come la calcolatrice meccanica del grossista di via Coppino – di fronte ai documenti lasciati dal soldato ha un’idea: con quel rapido addio, la donna ha perso la possibilità di usufruire dei sussidi dovuti alle mogli dei militari: figlia mia perché non celebri comunque il matrimonio e così ci dividiamo quei bigliettoni mensili? La promessa sposa è scossa ma coglie il messaggio, d'altronde ci sono quattro figli da sfamare. Il progetto richiede diverse forzature, intanto perché qualcuno deve impersonare il fante di Orvieto, poi perché la donna deve attuare il famoso stratagemma e infine perché bisogna fare le cose in fretta. 

Il primo problema è risolto: un altro soldato continentale si presta a entrare nella parte e procura anche i due testimoni: in Sardegna ci sono migliaia di militi sbandati, l'anagrafe è nel caos ed è impossibile fare verifiche; il secondo ostacolo - il fatto che lei sia già sposata - è superabile perché la donna chiede i documenti al Comune a nome di una sorella nubile; infine ottiene da un medico compiacente un certificato dal quale risulta in imminente pericolo di vita, in modo da giustificare l’urgenza.

C’è tutto, ora si può andare dal parroco che, impegnato nei preparativi natalizi, celebra le nozze all’istante. Le due truffatrici hanno vinto, possono dividersi il sussidio. Ma il cuore, appena sopra lo stomaco affamato, batte ancora. L’orgoglio e la speranza di riacciuffare quel giovane e ingenuo amore, inducono la donna a compiere un errore fatale. Va dal soldatino per sbattergli in faccia il certificato di matrimonio: siamo sposati, perdonami e ricominciamo come se nulla fosse accaduto. Lui si indigna, va prima dal parroco - che rimane basito - e insieme si rivolgono alla Questura. La sposa, la vecchia megera, il medico e i due testimoni vengono arrestati. Il finto sposo si dilegua per tempo, tanto nessuno sa il suo vero nome. 

La storia finisce sul giornale con un titolo che è un invito a lasciar perdere le altre notizie: “Un matrimonio da operetta, cronaca incredibile”. L'anonimo giornalista, probabilmente il grande Aldo Cesaraccio, si diverte da morire e chiude il pezzo in modo spietato: “Il banchetto nuziale, com’è logico, avrà avuto luogo a San Sebastiano…”.