Il Candeliere d'Oro |
Il 13 agosto Sassari celebrerà il cinquantesimo anniversario del Candeliere d'Oro, manifestazione inventata per festeggiare gli emigrati che tornano in città per la Faradda (Segnalo la bella iniziativa del Comune per coinvolgere chi è rimasto all'estero). A loro, e ai numerosi lettori del blog sparsi nel mondo, è dedicato questo racconto.
Tra il 1943 e il 1945 molti sassaresi sono in apprensione per la sorte dei parenti oltre Tirreno. L’isolamento aumenta l’angoscia e l’unico filo che lega la Sardegna all’Italia scorre invisibile nell’aria. Radio Roma e Radio Vaticana portano le voci di chi sopravvive nella capitale, città aperta. Ogni giorno le radio snocciolano lunghi elenchi di nomi e cognomi con le località di provenienza, messaggio nella bottiglia dall’identico contenuto: noi siamo vivi, tranquilli. Il servizio di corrispondenza copre solo alcune province del Sud liberato, non è possibile scrivere a chi risiede nell’Italia occupata dai nazisti. Per prendere la nave ci vuole uno speciale lasciapassare.
Se le campagne sono attraversate dai disertori continentali immobilizzati nell’isola, ce ne sono altrettanti sardi sospesi in Continente. Molti soldati riusciranno a tornare a Sassari solo a guerra abbondantemente finita, sporchi, irriconoscibili, incapaci di reinserirsi nelle dinamiche di famiglie che idealmente li avevano già seppelliti. A determinare i loro destini sono le scelte compiute subito dopo l’armistizio. Per tutti è l’inizio di un’imprevedibile sequenza di eventi. L’importante è dribblare i tedeschi che non hanno digerito il cambio di alleanze e ricorrono facilmente ai plotoni d’esecuzione. L’unica regola è, quindi, improvvisare.
Improvvisano tre ragazzi del Battaglione Avieri (Antonio Masia, Antonio Frau e Giuseppe Cocco) che il 16 settembre decidono di tornare in Sardegna. Si trovano a Frosinone e hanno un piano semplice semplice, l’unico possibile: rientrare in Sardegna attraverso la Corsica, guado percorribile per chi ha a disposizione solo le proprie braccia. I tre rimangono per alcuni giorni alla macchia, aiutati dalla popolazione locale. Poi vanno due giorni a Roma, dove convincono altri due conterranei a tentare l’avventura, Francesco Serra e Giuseppe Murgia. Ora sono in cinque.
Raggiungono Civitavecchia occupata dai nazisti e qui il gioco si fa più rischioso. Il gruppo è inebriato dal profumo del mare: oltre l’orizzonte c’è la terra promessa. Una motivazione sufficiente per superare le ultime pause e imbarcare nell’impresa disperata altre tre disgraziati: Andrea Manca, Francesco Abis e Leonardo Sotgiu. Tra mille peripezie e attacchi d’ansia, gli otto piccoli Ulisse sardi risalgono la costa fino alla spiaggia di San Vincenzo, tra Piombino e Livorno. Rubano una barchetta e iniziano la traversata verso l’isola francese. A forza di remate.
Ci vogliono sedici lunghe ore per tagliare il Tirreno. Quando i nostri, consumati dalla stanchezza, intravedono la costa hanno un sussulto. La piccola barca sta per incrociare un convoglio tedesco. Una nave di scorta inizia a sparare contro di loro, sembra finita. Ma, come si dice, arrivano i nostri. Nel cielo sfreccia una formazione americana che attacca le navi tedesche. I sardi ne approfittano per scansare la cattura e andare verso Bastia, con tutto lo scafo sforacchiato. Sbarcano nel porto che le braccia sono blocchi di marmo senza più sensibilità. Il tempo di alzare la testa ed ecco la delusione più grande: il porto è in mano ai nazisti, non c’è possibilità di fuga, è stato tutto inutile. Imprigionati, vengono costretti a lavorare nelle banchine. Tanta fatica per finire schiavi dei nemici. Passano alcune settimane e la città viene bombardata. In mezzo a quell’inferno di fumo e sangue, i sardi colgono l’occasione al volo per dileguarsi e iniziare un lento avvicinamento verso Bonifacio. Si uniscono ad altri italiani e alla fine riescono ad attraversare le Bocche. La stampa locale li tratta da eroi. Quattromila anni fa le loro gesta sarebbero state cantate da Omero, oggi sarebbe il soggetto di un videogioco.
Un racconto emozionante, molto più che una testimonianza storica. Sono profondamente convinta che la storia con la esse maiuscola sia fatta di tante piccole storie, minuscole solo per "l'alfabeto" comunemente in uso. La sua riflessione finale mi ha colpita, mi ha fatto riflettere su come gli eroi, prima dell'avvento di quelli virtuali, fossero modelli da imitare e non personaggi di cui vestire i panni, per provarne le forti emozioni. Quella traversata davvero eroica e poi tutti gli eventi conseguenti ad essa avevano tempi, avevano interminabili confronti con il trascorrere del tempo. Sedici ore per attraversare un braccio di mare e tutta la vita restante per raccontarlo, per ricordarne il valore. In sedici ore davanti a un pc si può attraversare l'intero pianeta in lungo e in largo e dimenticare di averlo fatto, poco dopo. Preziosa riflessione. Grazie.
RispondiElimina